Nelle letture che hanno accompagnato ed accompagnano la mia militanza critica, i testi di Borges restano una guida indispensabile; non tanto per la corrispondenza ai temi, alle figure che di volta in volta si propongono come pagine di un incontro, di arricchimento e di crescita, quanto per l’inclinazione a muoversi nell’esteso molteplice orizzonte della conoscenza. L’archivio è l’immagine alla quale faccio corrispondere il profilo dello scrittore argentino, disposto a suggerirmi un metodo di guardare, con un’unica focale, al soggetto e al contesto.

L’idea di stare in un archivio è quella che mi ha spinto di recente a sostare a lungo, e per più volte, nello studio, a metà degli anni Settanta “ex-Officina”, di Giuseppe Rescigno a Mercato S. Severino, la cittadina della valle dell’Irno, ove oramai da mezzo secolo l’artista lavora.

Allineate sui tavoli e alle pareti le teche, organizzate in gran parte in trittici, con a lato le bacheche, i piani di pittura che spingono nello spazio il guizzo coloratissimo di un dettato ludico, le installazioni addossate ai muri perimetrali, hanno da subito tracciato nella mia immaginazione lo spazio di un archivio, non tanto diverso da quello che Borges lascia intendere quando, nell’Aleph, fa accenno al Polyalbion con il quale Michael Drayton registrò, afferma lo scrittore, «la fauna, la flora, l’idrologia, l’orografia, la storia militare e monastica dell’Inghilterra». Voglio dire che davanti ai miei occhi si è aperto, sin dal primo incontro, un archivio di immagini che l’artista aveva, negli anni, decantato dalla realtà, dando ordine, nel senso di processo didattico, al dizionario di forme della natura e della propria identità.

La sua esperienza partita dapprima come costruzione di un dizionario, i cui lemmi sono stati essenziali per circoscrive il campo, ovvero il “luogo” dell’interesse immaginativo e dell’individuazione dei temi all’interno di esso, si è pian piano modificata. Rescigno ha in sostanza spostato l’asse della sua attenzione, richiamando di volta in volta il proprio vissuto nella dimensione di un tempo attuale, l’unico, a mio avviso, che ci consente di sdoganare la memoria dai “luoghi” ipogei della mente. L’artista è stato capace di dialogare contestualmente sia con il bagaglio di nozioni e di persistenze emotive propri degli anni di sperimentazione nell’ambito della così detta poetica dell’ “arte nel Sociale” che nel corso degli anni Settanta lo ha visto tra gli interpreti sulla scena nazionale, sia con la necessità di dotare tale bagaglio di una sua attualità. Ricerca di attualità che non va letta come encaissement, riscossione in ritardo di un riconoscimento per il lavoro svolto quattro decenni fa, bensì quale pratica dialettica che sostiene la sua ferma volontà di continuare ad operare in tale contesto, geografico e immaginativo.

All’indomani di quel decennio, acceso da una nuova realtà della cultura, con i suoi alti e bassi, come li tratteggia Oreste Scalzone surrogando, a partire dal 1970-71 l’immagine altalenante dell’uovo e della gallina e fino al 1978-79, nel quale «ci precipita addosso un presente che dura ancora», Rescigno si è posto in disparte, lontano dalla scena espositiva ma anche dall’oblio di dover, per l’inerzia dell’abitudine, produrre oggetti o superfici “fatti ad arte”.

L’elaborazione teorica, l’impegno entro l’esercizio della didattica, gli interessi riversati nella ricerca storica del proprio habitat, in primo luogo quella dell’economia dei mercati nelle città del Mezzogiorno d’Italia, sono anch’essi momenti di costruzione di quell’archivio poc’anzi richiamato: un archivio che ha implicato ed implica una disponibilità ad entrare, attivandolo con la capacità del gioco come vedremo innanzi parlando ad esempio sia delle tavole dedicate ai “futurismi” sia delle installazioni Segni celtici, in un processo di ricreazione.

Nel corso di questi ultimi cinque anni, dalla fine del 2010, prende avvio un lavoro nel quale l’attenzione di Rescigno torna quindi a spostarsi, con marcato interesse pittorico e con una segnata vena immaginifica, verso la natura, la sua architettura, assunta quale costruzione di un processo che si rinnova ciclicamente.

Nascono opere come Herbarius, De rerum natura, nelle quali l’artista mette in campo sia l’abilità di una manualità che gli consente di gestire più materie e tecniche, dalla terracotta al legno, alla pittura, sia la forte sollecitazione immaginativa che recupera dagli esercizi didattici di riappropriazione del territorio (del proprio habitat) dei primi anni Settanta. Immaginazione ludica che attraverso il gioco diviene modalità di processi di rinnovata conoscenza; in sostanza riparte da quanto Balla e Depero affermano nella chiusa del Manifesto della Ricostruzione futurista dell’universo, del 1915.

Rescigno costruisce una stretta trama narrativa che è propria di una certa pittura oggettuale, per far sì che la composizione non scada in un bricolage, insomma evita che l’occhio sosti sul piacevole controllo delle pratiche, dei materiali, degli effetti, finanche sul dettato del colore.

Il suo colore non mira a nominare una forma, il verde della foglia, il blu delle onde e così via, bensì richiama una cognizione di spazio, una particolare atmosfera, ossia un preciso rapporto d’identità con l’habitat. È un colore che riassume quanto prefigurato da Gustave Moreau all’artista moderno: «pensato, sognato, immaginato».

L’eredità di un decennio
Un vero e proprio dibattito, di rilettura e di analisi e soprattutto di contestualizzazione storico critica, cioè autentico, sulle esperienze di operatività estetica nel sociale che hanno caratterizzato la scena artistica italiana del decennio Settanta, non ha mai avuto un suo effettivo riscontro. Unico importante ed esemplare tentativo in questi anni si deve al lavoro di Silvia Bignami e di Alessandra Pioselli che hanno curato l’ordinamento espositivo e il catalogo della mostra “Fuori! Arte e spazio urbano 1966-1976”, allestita al Museo del Novecento di Milano, tra la primavera e l’autunno del 2011: una mostra che, per ovvie ragioni di sintesi, ha puntato l’attenzione sugli aspetti più noti che, dalle azioni povere degli artisti riuniti da Celant nella seconda metà degli anni Sessanta vanno a “Volterra73”chiudendo lo zoom su alcuni aspetti documentati dal padiglione italiano della Biennale di Venezia del 1976. Padiglione nel quale figurava anche l’esperienza di Rescigno all’interno del Gruppo Salerno75, con Ugo Marano ed Antonio Davide. Una mostra, quella milanese, che lasciava, però, ancora la porta chiusa ad una lettura che spiegasse le ragioni che spinsero tanti artisti a ritrovarsi a cooperare tra loro nella acquisita dimensione di operatore estetico; cioè, come riassume Costa Gavras, in un’intervista rilasciata a Roberta Ronconi nel 2007 e dedicata alla sua esperienza di cineasta in quegli anni, «entrare nella complessità umana.» Entrare come azione, come un agire partecipativo alla complessità sociale.

L’onda del rappel à l’ordre di stampo ideologico ma anche specchiante le ‘necessità’ del mercato dell’arte che ha coperto la dialettica degli anni Ottanta, portava con sé un miscuglio di diversificati approcci teorici, inscritti nel dilatato pensiero postmoderno: in nome dell’affermazione dell’individuo, oramai rapito dal fascino dell’edonismo reaganiano, cadono una ad una le conquiste maturate da un decennio, disperdendo la capacità di agire. Torna sulla scena il mito e il genio, la creatività come ‘spettacolo’ esibito dalla comunicazione.

È sull’azione, quindi sull’agire che convergono i fili che tracciano le esperienze condotte da Rescigno nella prima metà degli anni Settanta: un registro che se da un lato guardava alle nuove strade introdotte nella didattica dai Decreti delegati, fra esse l’attività di animazione partecipata, dall’altro puntava sul riconoscimento dell’ambiente come testo e supporto creativo. Le pietre di una città, di un borgo, sostiene Marco Romano, sono pagine scritte; documenti che partecipano al nostro presente. Lo stesso è per le piante dei boschi e dei giardini, per le spiagge con le scritture delle maree: insomma un grande archivio vivente nella sua mutevolezza  che Rescigno ha riconosciuto come tale. In esso non vi ritrovava allora, come non ritrova oggi, l’evocazione silenziosa della memoria, l’assenza che si fa sospensione: nel suo lavoro c’è il tentativo di attrezzare un archivio della realtà, contestualmente sia della dimensione memoriale, sia della affermazione del presente, che si fa strumento di continue ri-creazioni, ossia di un iterato processo immaginativo, dunque di progettualità del tempo.

Il 1975, ad un anno dell’apertura di Taide spazio per, la galleria sperimentale che aveva avviato la sua attività a Mercato s. Severino, l’esperienza artistica di Giuseppe Rescigno registra una svolta linguistica ben evidente. La sua attenzione da ora si rivolge completamente al territorio assunto quale “luogo” poetico del sociale urbano: una scelta di campo che trova piena realizzazione e condivisione nelle azioni di riappropriazione urbana programmate dal Gruppo Salerno75, costituito proprio in quell’anno, all’indomani della X Quadriennale d’arte di Roma che registra una massiccia presenza dei giovani artisti salernitani coinvolti nell’esperienza di Taide.

Prima di quella data Rescigno aveva sperimentato incursioni nell’ambito oggettuale, ove l’oggetto d’uso assumeva un ruolo testimoniale e al tempo stesso di recupero semantico del segno, come è per Alfabetiere e alfabeto, del 1975 in mostra nella citata Quadriennale. Contestualmente si affianca un’attività performativa che, se da un lato insiste sulla funzione dell’oggetto-forma, in tal senso penso all’azione Enclosure, tenuta nel 1975 alla Taide di Mercato S.Severino e poi al Punto blu di Reggio Calabria, dall’altro con Ellisse: costruzione per punti performance tenuta nello stesso anno sempre alla Taide, avvia un processo di rilevazione/rivelazione del territorio-ambiente assunto man mano come campo di un’operatività didattica. In questa direzione vanno inquadrate le azioni quali Errata Corrige, tenutasi a Reggio Calabria nel 1975 e che vede coinvolto, con Rescigno, un gruppo più ampio di artisti (D’Antonio, Davide, Lista, Marano, Salvatore); la Proposta per un itinerario urbano, performance tenuta da Rescigno a Gubbio nel 1975 nell’ambito della Biennale d’arte del metallo e Proposta per una rifondazione di Roma  ideata per il progetto “Operazione Roma eterna”, del 1975-76, che vede l’artista operare con i suoi  alunni nelle campagne della valle dell’Irno.

Prospettiva di operatività ambientale che fonda la sua poetica nel rapporto con la natura, assunta, lo evidenziavo in apertura come un archivio che rigenera ciclicamente la sua capacità di mondo dell’immaginifico, contestualmente ad azioni mirate a cogliere, sosteneva Crispolti, l’affermarsi di una concreta semiologia urbana sociale.

Le esperienze di Rescigno, comprese quelle condivise all’interno del Gruppo Salerno75 prime fra tutte l’operazione Gessificare, che Crispolti iscriveva nella sezione “Riappropriazione urbana individuale” della richiamata Biennale veneziana del 1976, assumono il carattere di processo cognitivo del territorio che include un’idea di scultura, o di pratica sostanzialmente scultorea parallela, ma non tangente, ad esperienze dell’Earth art e della Land art.

Diversamente dagli artisti statunitensi, Rescigno non tende verso l’intrusione «di un mondo nello spazio chiuso della forma» come la Krauss riassume gli interventi di Heizer nel deserto del Nevada e di Smithson nel Grande Lago Salato nell’Utah, bensì spinge la sua azione di rilevazione/rivelazione verso una percezione del luogo avvertito come parte della propria identità esistenziale. Dichiara sia una certa vicinanza alla pratica landartista esibita da Richard Long in A line made by walking del 1967, sia un interesse didattico-formativo verso una cultura dell’ambiente, richiamandosi agli interventi di Bruno Munari, quale ad esempio la Visualizzazione dell’aria di piazza Duomo, tenuta a Como il 21 settembre 1969, nel tracciato della manifestazione “CampoUrbano”.

In questa direzione vanno gli interventi, realizzati all’indomani dello scioglimento del Gruppo, sul finire del 1978, penso a tal proposito ad azioni quali F. 185, Carta d’Italia, del 1979, nella quale l’artista riportava sul terreno una curva di livello e Intervento in/sul “tempo reale”, una performance tenuta, nello stesso anno, nell’ambito degli “Incontri di Martina Franca”: interventi che evidenziano la propensione ad azioni cognitive dell’habitat, non come mera dimensione di un’azione effimera, quanto di attivazione di un processo di memorizzazione, di archiviazione in termini di accumulo di “materiali” per il rinnovarsi di processi immaginativi.

Rescigno fa suo quanto teorizzava Dorfles proprio in quegli stessi anni nel ben noto Dal significato alle scelte, apparso nel 1973. Trattando del design ambientale, Dorfles richiama l’attenzione sulla necessità, per chi opera soprattutto nell’urbano, di prospettare una “memorizzazione affettiva” intendendo «la possibilità di fissare nella propria memoria alcuni elementi; non solo visivi, ma acustici, olfattivi, tattili, di Stimmung, di atmosfera, dunque, capaci di richiamare alla memoria il volto d’un determinato ambiente». Aggiungendo che essi vanno accolti come elementi «d’importanza fondamentale perché costituivano (e costituiscono sempre meno) il vero legame che univa l’uomo al suo luogo d’origine».

Legame con il luogo che negli interventi realizzati nello scorcio finale del decennio, assumono una scala territoriale più vasta: con l’azione F. 185, Carta d’Italia, Rescigno giunge al riconoscimento effettivo dell’ambiente rappresentato nella micro dimensione della trascrizione topografica in piano. Fa corrispondere, su scala reale, il luogo con il segno che lo raffigura, offrendoci la possibilità di poter estendere tale proiezione alla rotondità del pianeta, in chiave di un recupero antro-psicologico.

Prospettiva operativa, dunque, che mira al riconoscimento di un più serrato rapporto tra l’uomo e l’ambiente sociale nel quale esso si forma; entrare, cioè, nel confronto tra il Sé e il collettivo, la comunità, ma al tempo stesso, attraverso la pratica dell’environment alla quale Rescigno resta fedele, aderire fortemente ad una esperienza artistica che chiama in gioco la forza dell’immaginazione come progetto ed azione. Sono esperienze che nel corso degli anni Ottanta, saranno peraltro al centro dei suoi interessi di ricerca e di didattica, ripresi nella sua ampia attività di saggista: da Artigianato e dintorni. Metodologia per lo studio d’ambiente, del 1984 a Geografia del micro territorio, del 1986, ad Ambiente naturale e apprendimento, apparso nel 1991 per i tipi degli Editori Riuniti.

 

Archivi: architetture di natura, la ‘casa’ del mago e i ‘segnali’

L’immagine dell’archivio, come ho accennato nelle battute iniziali, mi richiama la struttura della scrittura di Borges; ulteriormente non tanto per la maestria di intrecciare nella narrazione molteplici realtà letterarie, con l’eleganza che contraddistingue lo scrittore argentino tra i letterati del Novecento, quanto per il metodo immaginativo che essa sollecita.

L’archivio, meglio ancora gli “archivi” che Rescigno esibisce con rinnovata esplorazione dell’immagine e dell’oggetto, hanno come sfondo la natura, richiamata sia per la sostanza percettiva, inquadrata tra micro e macro paesaggio, sia per il suo valore semiotico.

I primi lavori datati al 2011, Boschetto 1 e Quercus offrono già una prima chiave di lettura di quello che, nei due anni a seguire, sarà la scelta di campo operata dall’artista, il quale, sul piano tematico, istruisce un continuo rapporto tra l’immagine dell’insieme naturalistico e il dettaglio del corpo natura esibito come reperto. Un contributo in tal senso è offerto anche dalla scelta della composizione architettonica a forma di trittico delle bacheche, per la quale la possibilità di richiudere le due laterali più piccole su quella centrale, rinnova la funzionalità di teche ‘scientifiche’ proprie dei laboratori o musei di entomatologia o di botanica. Lo schema compositivo orchestrato mettendo a giusto registro l’immagine fotografica riportata su foglio di acetato e gli elementi naturali ordinati nella parte bassa, con tanto di didascalie e di commenti a lato, proviene da alcune opere che l’artista aveva realizzato sul finire del decennio Settanta: penso in particolare a Finestra-parete per un paesaggio intercambiabile, del 1979 ove però, diversamente dalle teche attuali, egli si soffermava con maggiore evidenza sulla documentazione, proprio come farebbe un botanico.

In quelle attuali balza vistoso il colore, attentamente studiato e pensato, per creare uno scatto immaginativo che sottrae le reiterate forme dei rami, esibite nel loro punto di articolazione (come corpi con le braccia alzate che più tardi prendono la forma di totem e di segnali com’è per Simbolismo vegetale, del 2013), dall’universo natura. È una natura ludica, sognata, come è appunto il colore che la intercetta, lasciando grandi margini all’immaginazione, anzi sollecitando analogie architettoniche di uno scenario urbano. Un ordine che nel tempo darà spazio (si veda Matrici di foglie, del 2015) ad impaginati che chiamano in causa percezioni tattili che l’artista gestisce alternando stampi di foglie stilizzate, realizzati in legno o terracotta, con le impronte che gli stessi lasciano sulla carta, tale da attivare, su un piano semiotico, una relazione tra segno grafico e la forma-oggetto che lo determina.

Nelle bacheche, organizzate come vere e proprie teche, l’artista dispone l’illimitato abbecedario di un’immaginazione ludica che trova di volta in volta nuove analogie, dunque, nuove  sollecitazioni.

L’esibizione in teche, perfettamente ordinate, anche nel ritmo dell’impaginazione, ha man mano spinto Rescigno a far leva sulla disponibilità di quelle forme organiche ad offrire dettagli, sezioni, generative di nuove forme (si veda: Plantago 1, del 2014 e, prim’ancora, Ri-flessione 2, del 2012) combinabili tra loro e tale da stralciare ogni richiamo di quella originaria. Lo fa accentuando il valore cromatico, insomma giocando sulla tavola cromatica di Itten, individuando luminosità affini, pronte a caricare di un astratto dettato espressionista l’architettura interna della teca. L’ha fatto fino a ridurre il colore a piani di colore, accogliendo alcune, fondamentali sollecitazioni che, Balla e Depero, dicevo innanzi, avevano sintetizzato nel Manifesto della Ricostruzione futurista dell’universo, pubblicato cento anni fa. Il colore che sostiene la svolta verso il piano, trasformando di fatto il suo studio nella “casa del mago”, è «esplosione di colore […] giocondissima, audace, aerea» come enunciato da Balla nel successivo Manifesto del colore, del 1918.

Rescigno, sulla soglia dei settantacinque anni, condivide, con Depero, il metodo immaginativo-rigenerativo fondato sulla vitalità immaginifica del gioco: esso deve offrire, si legge nel Manifesto della Ricostruzione, uno «slancio immaginativo» capace di «agilizzare la sensibilità».

La sua ‘casa del mago’ che si affaccia timidamente sul corso centrale di Mercato San Severino, trabocca di divertimento, esibito in una continua invenzione di forme che si incastrano tra loro rigenerandosi di volta in volta, alimentata da una ritrovata concentrazione e serietà propria di un bambino. Il riscontro è offerto da opere quali  Frammenti, del 2012, una tavola costruita da intarsi di multistrato ispirata alla Grande selvaggia di Depero, del 1917, Paesaggi notturni, un trittico dello stesso anno costruito anch’esso con intarsi lignei tratto dal Batterista di Fillia, Deperiana puzzle oppure Il gioco di Piet (quindi una rivisitazione neoplastica), entrambe del 2014, queste ultime proposte come scatola di pezzi componibili che l’artista affida alla libera immaginazione compositiva del fruitore. Non v’è dubbio che tale ludica vitalità immaginativa sia anche il frutto di una rivisitazione di quelle sculture-oggetto realizzate nei primi anni Settanta, penso alla Città dei bambini del 1974, nelle quali, avverte Crispolti, si poteva leggere «un principio analitico, sia di ricognizione oggettuale che poi di ordinamento, in teche repertoriali». Principio quindi che teneva l’operato di Rescigno lontano da una sorta di iconologia pop che, invece, si rifletterà sulle teche, oggettuali e pittoriche, realizzate contestualmente da Lucio Del Pezzo.

Dagli intarsi deperiani, dalle stele, dalle scatole di “opere montabili” alla riduzione in segnali il tratto è breve: agendo sull’ingrandimento delle forme e del segno l’artista rinnova il personale dizionario semiotico. I segnali hanno forme che, se gestite alternando positivo e negativo, stampo e impronta, pieno e vuoto, si propongono come elementi di un lessico scultoreo. Va, però, subito chiarito che la scultura indagata nell’accezione tradizionale, non aderisce al progetto operativo di Rescigno: la forma non aspira ad una definizione, bensì attiva continuamente (penso a tal proposito a Trasformer 1 o Per fare un tavolo, oppure l’ampia serie dei Trasformers-macchine da guerra, tutte del 2015 e realizzate in legno, plexiglas colorato, perplex) relazioni immaginative, incastri, corrispondenze, funzioni poetiche. L’idea progettuale ricalca la multifunzionalità del “coltellino svizzero” che, dalla sua apparente compattezza, fa uscire fuori utensili e mini strumenti di ogni genere. ‘Strumenti’ che, nei complessi plastici di Rescigno, inducono ad una molteplicità di relazioni formali, insomma ad ipotesi di immagini effimere rese possibili dalla partecipazione attiva, dunque dall’agire del fruitore-spettatore. Torna, anche se proposta nell’oggetto ‘ad arte’, la necessità di una condivisione attiva da parte del pubblico, in pratica di un processo creativo che non si esaurisce nella definizione dell’oggetto ma, come richiedeva il primo ready-made duchampiano, continua come vettore immaginativo.

Altro sviluppo dei segnali è stato in direzione di installazioni fondate sull’alternarsi, in misura tridimensionale, di forme-sagome dai colori accesi e squillanti oppure lasciate nell’originario colore del ferro che danno vita a giochi di pieni e di vuoti: questo è per Segnali in parata e per Segni celtici, entrambe sculture in ferro eseguite di recente. In esse Rescigno ritrova il piacere della scultura, esemplificando l’architettura di opere plastiche realizzate sia per lo spazio urbano della sua città (Segnaletica alternativa, 1981, in lamiera smaltata), sia per le scenografie teatrali di spettacoli quali Giovani  senza  dei, del 1984,oppure Dino Campagna poeta, del 1985, il primo  andato in scena nell’ambito della XVI Edizione di Settembre al Borgo a Caserta Vecchia, il secondo nel magico scenario dei templi di Paestum. Il richiamo al dizionario di ‘segnali’ urbani, di segni attinti al codice dei  ‘movimenti’ di una città  consente all’artista di concepire il complesso plastico come variabile, vale a dire disposto a confrontarsi con i luoghi.

Torna quindi nuovamente sul tema che da oltre quarant’anni sollecita domande alla sua immaginazione: la città, i luoghi e la loro anima.

Massimo Bignardi in Rescigno. Archivi della natura, Edizioni Gutenberg, Fisciano 2016